Perché demolire una barca

21.02.2022

Carcasse abbandonate con tanto di motori, batterie e combustibili. Migliaia d’imbarcazioni assediano foci e pontili. Avvelenando le acque.
di Francesco Loiacono | 15 giugno 2015

Relitti carichi di materiali in decomposizione giacciono lungo le coste marine o le sponde dei fiumi, imbarcazioni a fine vita che non vengono rottamate e restano nell’ambiente, a volte veri e propri bastimenti di veleni.
«Ecco lì un peschereccio che da circa sei mesi è in questo stato di degrado: l’unità è andata giù e probabilmente, da quello che si vede, a bordo ci sono ancora l’impianto motori, con la cassa combustibili, l’olio della lubrificazione, le batterie: tutti elementi che andrebbero bonificati perché se dispersi nell’ambiente provocherebbero numerosi danni».

È la denuncia di Adolfo D’Angelo, segretario nazionale nautica Confarca, davanti alle tante barche abbandonate in uno dei canali della foce del Tevere, alcune in prossimità di un cantiere navale, altre ormai nascoste nella vegetazione, risalendo il fiume verso l’entroterra. A poche centinaia di metri dalla riserva naturale del Wwf “Litorale romano”.
Pescherecci, barche a vela, piccoli natanti. Un’eredità pesante, a carico dell’ambiente. «Un motore buttato sott’acqua alla lunga si degrada e comincia a disperdere sostanze nocive – spiega D’Angelo – L’olio combustibile usato per la lubrificazione ha un altissimo tasso di sostanze nocive che durano nel tempo. Le casse carburanti continuano a mantenere il carburante residuo nella cassa, perché il serbatoio non rimane mai a secco.

Poi a bordo c’è l’impianto elettrico, le plastiche, le batterie. In molti casi si tratta inoltre di barche vecchie, quindi con batterie con celle in piombo e parti in amianto». Per non parlare del rischio per la navigazione. «Sono un pericolo vero e proprio – aggiunge – se c’è una piena del Tevere queste unità perdono gli ormeggi o si staccano dal fondo. Possono anche incagliarsi sotto alponte levatoio “Due giugno”, alto un paio di metri sul fiume, e creare una diga: un tappo alla corrente con conseguenze gravi». Un problema sentito e denunciato anche da chi naviga quotidianamente nei laghi.

«Sul fondo del lago di Como ci sono barche in legno, i comballo, utilizzate per il trasporto delle merci – racconta Marco Morana, titolare di una scuola nautica a Bellano – Ce n’è una affondata a 20-25 metri di profondità a Tremezzo, un’altra a San Siro a 45 metri, un’altra ormai ridotta a pezzi a Colico, a 30 metri, a Carate Urio c’è una gondola lariana a circa 22 metri di profondità. A Novate Mezzola c’è invece affondato un battello di 20 metri per il trasporto passeggeri. Tirarlo fuori è difficile e pericoloso, ci hanno provato un paio di volte ma c’è il rischio che si spezzi, così hanno rinunciato.
Fra l’altro è abbastanza vicino alla foce di un affluente, il fiume Mera».

Se per i mercantili ci sono norme che prevedono una rottamazione, per le imbarcazioni da diporto no. «Sarebbe opportuna – suggerisce D’Angelo di Confarca – un’analogia col campo automobilistico, dove già dalla metà degli anni Novanta è prevista la rottamazione presso le strutture convenzionate. Sarebbe opportuno sanare questa lacuna con la riforma del regolamento attuativo del codice della navigazione. Perché la macchina non si può lasciare in mezzo alla strada mentre un’unità da diporto a fine vita non ha nessun obbligo? Tutto viene lasciato alla coscienza del diportista, che magari non riesce più a mantenere la barca e l’abbandona».

Parliamo di un potenziale enorme. «Circa l’85% delle unità che navigano in Italia sono natanti entro i 6 metri, vetusti e con motorizzazioni inquinanti », precisa D’Angelo. Un numero altissimo visto che in Italia sono iscritte nei registri 105.000 unità da diporto con lunghezza superiore ai 10 metri. Eppure alcuni veleni a bordo si possono smaltire correttamente e in modo sostenibile. Per oli o batterie ci sono le isole ecologiche dei consorzi obbligatori di raccolta e recupero. Più complicato il fine vita dello scafo in vetroresina. Anche se una rotta per recuperarlo è stata già tracciata. «Insieme all’istituto dei polimeri del Cnr di Pozzuoli abbiamo sviluppato una tecnologia innovativa, che consente di mettere insieme il polistirolo, rifiuto da imballaggio, con la vetroresina – spiega l’architetto Antimo di Martino, che cura il progetto per Ucina, l’unione cantieri e industrie nautiche – I due rifiuti hanno un riciclo rielaborativo e si crea così un tecnopolimero, una materia prima seconda di alto valore che chiamiamo “Ercole”».

Con questo materiale a sua volta riciclabile, si può fare di tutto: piani cucine, piastrelle per pavimenti, pavimentazioni per verde pubblico e ci sono altre applicazioni allo studio. «È un’innovazione, tutta italiana, di cui andiamo fieri. Servirebbe però un aiuto da parte dello Stato per finanziarne l’avviamento – aggiunge Roberto Neglia, responsabile rapporti istituzionali di Ucina – Al nostro processo industriale serve solo una spinta per partire, poi si reggerebbe da solo». Una soluzione tecnica che viene dalla nautica ma può essere adottata anche da altri comparti che usano il vetroresina. Come la costruzione delle pale eoliche, che hanno un ciclo di vita di circa vent’anni.

Tratto da “La Nuova Ecologia”.

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